Cos’è la sindrome dell’impostore? Ecco perché non ti senti mai all’altezza del tuo successo professionale

Cos’è la sindrome dell’impostore nel lavoro? Ecco perché non ti senti mai all’altezza del tuo successo

Hai mai avuto quella sensazione di essere completamente fuori posto durante una riunione importante? Tipo quando tutti ti guardano come se fossi un esperto e tu pensi: “Madonna, se sapessero che non ho la minima idea di quello che sto dicendo”. Ecco, benvenuto nel club più esclusivo (ma allo stesso tempo affollato) del mondo: quello della sindrome dell’impostore.

Non stiamo parlando di quella volta che hai mentito sul curriculum dicendo di sapere Excel quando in realtà fai fatica anche con Word. Stiamo parlando di una cosa molto più subdola e diffusa: un fenomeno psicologico che trasforma anche i professionisti più competenti in eterni insicuri che vivono nel terrore di essere “smascherati”.

La sindrome dell’impostore è caratterizzata dall’incapacità di interiorizzare i propri successi e dal terrore persistente di essere scoperti come incompetenti, anche quando tutte le evidenze dimostrano il contrario. In pratica, il tuo cervello diventa il peggior nemico della tua carriera, convincendoti che ogni successo sia solo un colpo di fortuna.

Da dove viene questa storia dell’impostore?

La sindrome dell’impostore non è una moda passeggera di TikTok o l’ultima tendenza dei life coach su Instagram. È stata identificata per la prima volta nel 1978 dalle psicologhe Pauline Clance e Suzanne Imes, che si accorsero che molte donne di successo vivevano in uno stato costante di ansia per paura di essere “scoperte” come inadeguate.

All’inizio si pensava che fosse un problema principalmente femminile, ma col tempo gli studi hanno dimostrato che colpisce trasversalmente uomini e donne, giovani e meno giovani, in tutti i settori professionali. Non è ufficialmente riconosciuta come disturbo psichiatrico nel manuale diagnostico, ma questo non la rende meno reale o meno impattante sulla vita delle persone.

Il meccanismo alla base è quello dell’attribuzione esterna del successo: invece di riconoscere che i propri risultati sono frutto delle proprie competenze e del proprio impegno, chi soffre di questa sindrome trova sempre spiegazioni alternative. “È stata fortuna”, “il cliente era di buon umore”, “gli altri candidati erano scarsi” – qualsiasi cosa pur di non ammettere di essere semplicemente bravi.

I segnali che ti fanno capire se sei nel club

Come fai a sapere se anche tu fai parte di questo strano club? Il perfezionismo paralizzante è il primo campanello d’allarme. Non stiamo parlando di essere precisi o attenti ai dettagli – quello è professionalità. Stiamo parlando di quell’ossessione per il controllo totale che ti fa rileggere la stessa email quindici volte prima di inviarla, perché hai il terrore che una virgola fuori posto riveli la tua “vera natura” di incompetente.

Poi c’è la minimizzazione sistematica dei successi. Hai chiuso un contratto importante? “Beh, il cliente aveva già deciso”. Hai ricevuto una promozione? “Probabilmente non c’erano altri candidati validi”. Hai vinto un premio? “Il livello della competizione era basso quest’anno”. Il tuo cervello diventa un detective privato specializzato nel trovare motivi per cui i tuoi successi non contano.

E non dimentichiamoci dell’ansia da prestazione cronica. Ogni nuova sfida professionale diventa un potenziale momento di verità, un test che potrebbe finalmente rivelare al mondo la tua presunta incompetenza. Nuovi progetti, presentazioni, meeting con i clienti: tutto diventa terrificante non per la difficoltà intrinseca, ma per la paura di essere “scoperti”.

La sindrome del “non me lo merito”

Una delle manifestazioni più comuni è quella che gli psicologi chiamano la costante sottovalutazione delle proprie capacità. È come se dentro di te ci fosse un critico interno iperattivo che lavora ventiquattro ore su ventiquattro per convincerti che ogni tuo risultato sia un caso fortuito.

Chi vive questa esperienza spesso racconta di sentirsi come se indossasse una maschera professionale che nasconde la propria “vera” incompetenza. La paura costante è che prima o poi qualcuno si accorga che dietro quella facciata c’è solo una persona che “non sa quello che sta facendo”.

Perché il nostro cervello ci fa questi scherzi?

Ma perché mai il nostro cervello dovrebbe sabotarci in questo modo? La risposta sta nei meccanismi psicologici che regolano come percepiamo noi stessi e il mondo intorno a noi.

Dal punto di vista evolutivo, il nostro cervello è programmato per tenerci al sicuro, e questo include anche il non sopravvalutare le nostre capacità in situazioni potenzialmente pericolose. Il problema è che quello che una volta serviva per non sfidare il mammut sbagliato, oggi si trasforma in un’ansia cronica che ci impedisce di riconoscere i nostri successi professionali.

I bias cognitivi giocano un ruolo fondamentale in questo processo. Il nostro cervello tende a ricordare meglio le esperienze negative e a dare loro più peso rispetto a quelle positive – un fenomeno che gli psicologi chiamano bias di negatività. Risultato? Ti ricordi perfettamente quella volta che hai sbagliato una presentazione tre anni fa, ma dimentichi sistematicamente tutti i feedback positivi che hai ricevuto nel frattempo.

C’è poi il tema dei meccanismi di attribuzione. Mentre una persona con un’autostima equilibrata attribuisce i successi alle proprie competenze e gli insuccessi a fattori esterni temporanei, chi sperimenta la sindrome dell’impostore fa esattamente il contrario: i successi sono dovuti alla fortuna, gli insuccessi alle proprie mancanze fondamentali.

Chi rischia di più

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, la sindrome dell’impostore non colpisce principalmente persone insicure o poco competenti. Anzi, spesso sono proprio i professionisti più capaci e di successo a soffrirne di più. È uno di quei paradossi della psicologia umana che ha perfettamente senso se ci pensi: più sali nella gerarchia professionale, più aumentano le aspettative, e più aumenta la pressione di dover dimostrare continuamente il tuo valore.

Alcuni contesti lavorativi sembrano essere particolarmente “fertili” per lo sviluppo di questi pattern di pensiero. Settori ipercompetitivi come finanza, tecnologia, medicina, mondo accademico o consulenza manageriale, dove la competizione è feroce e gli errori possono avere conseguenze significative, tendono ad alimentare questo tipo di insicurezze.

Anche il background familiare gioca un ruolo importante. Chi è cresciuto in famiglie dove il successo era dato per scontato piuttosto che celebrato, o dove le aspettative erano costantemente molto elevate, tende a sviluppare una relazione complicata con i propri risultati.

C’è poi una componente legata all’appartenenza a gruppi sottorappresentati. Le ricerche mostrano che persone che si trovano in minoranza nel loro ambiente lavorativo – che si tratti di genere, etnia, età, o background socioeconomico – sono statisticamente più vulnerabili alla sindrome dell’impostore. Quando sei l’unico o una delle poche persone “come te” in un determinato contesto, è naturale chiedersi se la tua presenza sia davvero meritata.

Il prezzo nascosto dell’insicurezza professionale

Pensare che la sindrome dell’impostore sia solo una questione di bassa autostima che si risolve con qualche mantra motivazionale è un errore grossolano. Le conseguenze di questo fenomeno possono essere profonde e durature, sia a livello personale che professionale.

A livello lavorativo, chi vive questa esperienza tende a limitare sistematicamente le proprie opportunità. Si candidano meno per posizioni di maggiore responsabilità, esitano a chiedere aumenti o promozioni, evitano progetti sfidanti che potrebbero far avanzare la loro carriera. È come avere un freno a mano tirato costantemente.

C’è poi il tema del superlavoro compensativo. Per nascondere la propria presunta incompetenza, molte persone finiscono per lavorare il doppio degli altri, accettare carichi di lavoro eccessivi, dire sempre di sì a nuovi progetti. Il risultato? Un rischio elevato di burnout e esaurimento fisico e mentale.

Le relazioni interpersonali sul lavoro ne risentono pesantemente. È difficile costruire rapporti autentici con i colleghi quando vivi costantemente nella paura di essere scoperto. Molte persone riferiscono di sentirsi isolate, come se dovessero mantenere una “performance” continua per nascondere le loro presunte mancanze.

Come uscire da questo labirinto mentale

La buona notizia è che la sindrome dell’impostore, per quanto possa sembrare una prigione mentale, non è una condanna a vita. Esistono strategie concrete e scientificamente validate per spezzare questo circolo vizioso.

Il primo passo è sempre la consapevolezza. Riconoscere che quello che stai vivendo ha un nome e che milioni di persone competenti e di successo hanno affrontato la stessa battaglia è già liberatorio. Non sei pazzo, non sei l’unico, e soprattutto non sei davvero un impostore.

Una tecnica particolarmente efficace è la ristrutturazione cognitiva. Invece di accettare passivamente i pensieri negativi su te stesso, impara a metterli in discussione come faresti con qualsiasi altra affermazione dubbia. “Quali prove concrete ho che questo successo sia dovuto solo alla fortuna?”, “Se un amico ottenesse lo stesso risultato, cosa gli direi?”, “Quali competenze specifiche ho utilizzato per raggiungere questo obiettivo?”.

Tenere un “diario dei successi” può sembrare banale, ma è incredibilmente potente. Il nostro cervello è programmato per ricordare meglio le esperienze negative, quindi dobbiamo attivamente controbilanciare questo bias documentando i nostri risultati positivi, i feedback ricevuti, i problemi risolti, i complimenti ottenuti.

L’importanza dello sguardo esterno

Spesso chi soffre di sindrome dell’impostore vive in una bolla percettiva completamente distorta. Cercare feedback esterni oggettivi da colleghi, mentori, superiori o clienti può fornire una prospettiva più realistica sulle proprie competenze.

È importante anche imparare a normalizzare l’imperfezione. Nessuno, nemmeno i professionisti più esperti e rispettati nel tuo settore, sa tutto o fa tutto perfettamente. L’errore non è la prova di un’incompetenza fondamentale, ma una parte normale e necessaria del processo di crescita e apprendimento.

Il potere della prospettiva

Ecco una verità che potrebbe cambiarti la prospettiva: se sei arrivato dove sei professionalmente, molto probabilmente non è stata solo fortuna. Le aziende non assumono persone a caso, i clienti non si affidano a incompetenti, i colleghi non si rivolgono per consigli a chi non sa quello che fa.

La competenza professionale non è una medaglia che si vince una volta per tutte, ma un processo dinamico di crescita continua. Tutti stiamo imparando, tutti stiamo migliorando, tutti facciamo errori e li correggiamo. Accettare la propria umanità professionale significa riconoscere che si può essere competenti senza essere perfetti.

Il viaggio verso una relazione più sana con il proprio valore professionale richiede tempo e pazienza. Ci saranno momenti di ricaduta, giorni in cui quella vocina critica tornerà a farsi sentire più forte. Ma con pratica costante e, quando necessario, il supporto di professionisti qualificati, è possibile riscrivere la narrativa che la tua mente ha costruito su di te.

La prossima volta che quella vocina ti sussurra “non te lo meriti”, ricorda che milioni di persone di successo hanno affrontato e superato lo stesso dubbio. E soprattutto ricorda che se gli altri credono in te, forse è arrivato il momento di iniziare a credere anche tu in te stesso.

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